Una storia particolare, che fino ad oggi tocca 3 fasi salienti: inizio, malattia e rinascita.
Gaia ha deciso di far scorrere le dita sulla tastiera e raccontarci a cuore aperto la sua storia, ricca di spostamenti ma anche di dolori.
Scopriamo insieme il suo percorso di vita, che l’ha portata dalla Colombia ad una manyatta in Kenya, passando per l’Australia, l’Inghilterra e l’Italia.
L’INIZIO
Se dovessi e volessi davvero raccontare la mia storia per intero… beh, credo che dovrei cominciare dal primo paese della mia vita, la Colombia.
Sono nata lì ormai ventisette anni fa e dopo neanche due mesi mi sono trovata a crescere in quello che sarebbe diventato il mio paese d’adozione, l’Italia.
L’adozione ha, per me, rappresentato sin da piccola una ferita sanguinante.
Le costanti domande, i perché, i perché no hanno sempre condizionato chi ero e come vivevo.
Ho avuto la grande fortuna di essere cresciuta da due genitori che mi hanno capita e quando non ci riuscivano non mi giudicavano.
Sono cresciuta libera di essere e di pensare. Ma soprattutto sono diventata adulta con il grande privilegio di poter sognare.
Ad appena diciannove anni ho chiuso gli anni del liceo in un pesante zaino, ho salutato mamma e papà all’aeroporto di Milano e sono partita con un biglietto aperto per l’altra parte del mondo.
La mia prima grande avventura in solitaria. Io e me stessa. Io e i miei perché.
L’Australia divenne, pian piano, la mia seconda casa e lì, credo, incominciò quella che io definisco la mia (ri)scoperta.
Ho viaggiato, ho conosciuto, ho parlato, ho pianto, ho scavato.
Fino alle ossa.
Ho messo luce dentro tutti quegli spazi bui della mia anima. E ho continuato a farlo fino a quando non ho capito che, finalmente, mi ero (ri)trovata.
Dopo tanti anni di lotte silenziose, battaglie sanguinose, finalmente, mi ero mostrata per quello che realmente ero.
E così, decisi di non fermarmi più.
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Lo stesso anno mi iscrissi presso una facoltà inglese per laurearmi in quello che, all’epoca, pensavo sarebbe stato solo un corso di fotografia.
Com’ero ingenua, e mentre lo scrivo sorrido, ripensando alla me di quasi un decennio fa.
In realtà il corso di laurea a cui m’iscrissi per caso non era di fotografia ma di fotogiornalismo. Una cosa totalmente diversa.
Come sempre, non ero pronta. Non ero organizzata e mi ci volle un po’ per capire che tutto nella vita capita per una ragione.
Lavorai duramente. Non solo per ottenere buoni voti ma per mettermi alla prova. Giravamo il mondo, fotografando. Scoprendo storie, persone, fatti. Li raccontavamo per portarli alla luce, perché non venissero ignorati o dimenticati.
Il secondo anno di università in Inghilterra prevede che ciascun studente completi un periodo di internship (stage) o working experience (esperienza lavorativa).
Era la mia occasione, per rimettermi in viaggio. Per perdermi ancora nel mondo.
Mandai il mio curriculum sia a diverse agenzie fotografiche per dei lavori più di ufficio sia a delle organizzazioni no profit che, in cambio delle mie fotografie, mi facessero lavorare per loro come fotografa.
Il Kenya non era la mia prima scelta. Non lo è mai stata. Il Kenya è capitato. Come tutto, nella mia vita.
Partii all’inizio del mio secondo semestre, era inverno.
Atterrai a Nairobi come una di quelle tante persone europee: anonima, incuriosita e pensando di conoscere già tutto.
Lavorai negli slums (baraccopoli) e nelle discariche di Nairobi come fotografa per conto di questa organizzazione e cercai di trarre il massimo da quell’esperienza.
Ero giovane, e commisi tanti errori. Ma ciò che imparai durante quei mesi, ancora segna le mie azioni oggi.
Dopo qualche mese di intensa attività a Nairobi decisi di prendermi due settimane di respiro, un po’ per riposarmi e un po’ per completare dei progetti fotografici personali destinati agli esami di fine anno.
Volevo andare a Zanzibar, attratta dalle spiagge dorate e dal mare cristallino ma… costava troppo. Ero lì con l’aiuto di una borsa di studio e il mio budget non mi permetteva vacanze di lusso.
“Potresti andare verso il confine con la Tanzania, in terra maasai”, mi disse la coordinatrice del progetto che ormai viveva e lavorava a Nairobi da un po’.
Mi raccontò di un Kenya diverso, di un Kenya fatto di foreste e grandi altipiani, di giraffe ed elefanti.
Mi convinse, e partii.
Grazie al fatto che fossi una studentessa universitaria e che lavorassi per un’associazione operante sul territorio mi risultò più facile creare dei contatti con i locali così da poter svolgere i miei progetti fotografici.
Venni invitata a parlare con i capi della comunità, che erano incuriositi da questa “bianca” che voleva raccontare una storia su di loro.
Mi presentai, in maniera molto semplice e molto onesta. Spiegai perché mi trovavo in Kenya e perché volevo fare un progetto sulla popolazione Maasai. Dissi loro che volevo poter conoscere meglio chi fossero, le loro tradizioni e le famiglie.
Mi battezzarono.
Naramatisho. Questo è il mio nome. Persona che si preoccupa per gli altri e su cui gli altri possono contare.
Mi dissero che era un nome speciale, un nome importante e che io ero la benvenuta. E che loro mi avrebbero raccontato chi sono i Maasai.
Comincia così quella che io definisco la mia seconda vita.
Dove Gaia non esiste più e dove la civilizzazione sembra un mondo lontano, perennemente distaccato.
Iniziai a girare nell’area (vastissima) della comunità in cui mi trovavo. Venivo invitata dalle famiglie a pranzare con loro e bere una tazza di the. Ascoltavo, assetata, le loro storie. Così antiche, così autentiche, così ricche.
Ero innamorata, affascinata, onorata.
Loro parlavano e io fotografavo, mostrando loro l’aspetto che avevano e che spesso non avevano mai visto, non essendoci specchi.
Era uno scambio, un flusso, un innamoramento reciproco.
Le persone volevano conoscermi, condividere con me la loro storia e lasciarmi una fotografia. Rimasi stupefatta. Non pensavo che sarebbe successo questo.
E un bel giorno, d’aprile, conobbi il ragazzo che oggi ho la fortuna di chiamare marito. L’amore della mia vita.
Ntoyiai fa parte della casta dei guerrieri e all’epoca si occupava, insieme agli altri guerrieri, di pascolare i grossi bestiami dentro i parchi nazionali.
Non parlava inglese e il suo swahili era molto limitato.
C’innamorammo, come due ragazzi di vent’anni fanno, ma io ero una ragazza con troppi sogni in testa e poco spazio nella valigia. Nel cuore pochi battiti e le mani stanche.
LA MALATTIA
Sì, perché gli anni più belli della mia vita coincidono anche con quelli più brutti. A vent’anni mi venne diagnosticata una forma molto aggressiva di artrite reumatoide giovanile, una malattia cronica del sistema immunitario che distrugge le articolazioni del corpo.
E le mie articolazioni si stavano distruggendo. Si chiama, mi pare, rifiuto della diagnosi.
Dimenticai di essere malata, rifiutai qualsiasi trattamento e finsi di non avere nessun problema fino a quando il problema non mi costrinse a letto senza possibilità di movimento.
Il mio cuore si spezzò, ancora. Ma questa volta non sapevo come e se si sarebbe mai più riparato.
Continuavo a tornare in Kenya, nella savana dove, nel frattempo, io e Ntoyiai costruimmo una piccola capanna sul terreno di sua mamma.
Quelle erano le mie parentesi di vita. Quella era la vita che sognavo e a cui continuavo, dolorosamente e irrimediabilmente a dover rinunciare.
Mollai. Sì, mollai. Mollai tutto. Me stessa, i viaggi, il Kenya, Ntoyiai. Mollai e mi odiai ma non avevo altra scelta.
Mi impiantarono una protesi di titanio nel braccio sinistro e mi prospettarono un decennio di trattamenti pesanti e costanti prima di poter tornare ad avere una vita normale.
Una vita normale in un mondo civilizzato.
“Scordati il Kenya, scordati la savana”, dicevano i medici in continuazione.
E così feci. Me la scordai, mi adeguai, mi anestetizzai.
Rinunciai ai miei sogni e a quella parte di me che mi rendeva… me.
Mi trasferii definitivamente in Italia dove incominciai a fare volontariato con immigrati e profughi finché non trovai lavoro, con i miei ragazzi.
Un gruppo di richiedenti d’asilo dall’Africa dell’Ovest. Perché se io non potevo andare in Africa, non significava che non potessi avere un po’ di Africa con me.
Ricominciai a vivere. In silenzio. Battito dopo battito. Battaglia dopo battaglia.
Uscivo ed entravo dagli ospedali, mi iniettavo un farmaco che per salvarmi la vita mi riduceva a piccoli brandelli di me.
Non mollavo senza sapere che, in realtà, avevo già mollato.
Vivevo, al massimo delle mie capacità ed ero felice. Lo ero, per quel che potevo.
LA RINASCITA
Passò un anno e mezzo e la fortuna girò.
Cambiai alimentazione, cambiai abitudini, presi scelte dolorose e rinacqui.
La malattia entrò in remissione, tutta d’un fiato e io tornai a sognare.
“Torna dove sei stata davvero felice, tu lo sai, dov’è”, mi disse mia mamma al telefono.
E così, preparai il mio enorme zaino e partii.
Senza guardarmi più indietro.
Tornai in quella terra, la mia terra.
In mezzo a quella gente, la mia gente.
No, non ricominciai tutto da capo. Tutto era rimasto lì, lì dove l’avevo lasciato.
Anche Ntoyiai.
Che non aveva mai smesso di aspettarmi. E di amarmi.
Qualcosa di nuovo lo incominciai, in realtà. Rintracciai libri di swahili per bambini e mi misi a studiare.
Ora lo parlo quasi perfettamente e questo mi ha permesso di integrarmi ancora di più e relazionarmi in maniera ancora più profonda, con i locali.
Mi sono sposata e siamo andati a vivere non lontano dal posto in cui ci incontrammo quel giorno d’aprile.
Nella nostra amata savana, dove al tramonto se ti siedi sotto un’acacia puoi salutare le giraffe.
Viviamo una vita semplice. Senza acqua, elettricità e servizi igienici. La nostra casa è una manyatta (capanna) fatta di fango e sterco di mucca e alleviamo bestiame.
La mia non è stata una scelta dovuta. La mia è stata una scelta voluta.
Continuiamo a vivere in quella parte di mondo non perché non abbiamo altre scelte, ma perché lo desideriamo. Perché è casa nostra.
Quella stessa casa in cui, a breve, nascerà il frutto del nostro grande e speciale amore.
Ma questa… questa è un’altra storia. Ancora tutta da scrivere.
Mi chiamo Gaia, ho ventisette anni e sono nata a Santa Fe de Bogotà da una ragazza madre poco più che maggiorenne.
Ho viaggiato e vissuto in molti paesi del mondo.
Sono malata e non ho (più) paura di dirlo.
Provengo da una famiglia che amo e che mi ha supportata in ogni mia scelta, e se oggi sono qui a raccontarvi la mia storia è anche grazie a loro, che sono venuti a salvarmi ogni volta che mi sono persa.
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Grande e forte Gaia, la tua storia ha sempre il potere di commuovermi. Ti ho conosciuta su ig ma è come se ti conoscessi da sempre!
Gaia con le sue parole ha fatto strage! Siamo felici di averle lasciato spazio 🙂
Ciao Gaia, che bello ritrovarti “per caso”…Come abbiamo imparato, nulla succede per caso, ci siamo sfiorate come piccoli pianeti in corsa e poi ci siamo perse, ma le nostre vite hanno brillato insieme e si sono conosciute, piaciute e volute bene.. e così sarà.. ovunque siamo. Uno stramiliardo di auguri per una bella bellissima buonissima vita per te e tutti coloro che ami.. mi piacerebbe vedere il tuo bambino… chissà un giorno ci potremo incontrare e abbracciare ancora….