La storia di Gaia ve l’abbiamo già raccontata, anzi l’ha raccontata direttamente lei; oggi torna a parlarci di lei e lo fa ripercorrendo la gravidanza: come crescere (una vita) nella savana:
Ho scritto e cancellato circa un milione di volte.
Non so da dove cominciare, che cosa raccontare.
La gravidanza, per me, non e’ mai stato qualcosa che mi facesse sentire unica o speciale quanto più un evento naturale che alcune donne sono fortunate abbastanza da provare.
Quando scoprii di essere incinta di Lily Rose Naresiai avevo molte paure, un milione di dubbi e un’unica grande certezza: nascerà in Kenya.
Questo era forse il mio più profondo desiderio: poter dare alla luce la nostra primogenita nel luogo che più amavo.
L’Africa.
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Certo, non mancarono i nasi storti e le opinioni non richieste ma ad oggi non rimpiango quella scelta anzi, ne vado molto fiera.
Ma da dove posso iniziare per raccontarvi come e’ stato per davvero vivere la gravidanza nella savana?
Potrei iniziare cercando di sdrammatizzare e strapparvi un sorriso.
Si perché avendo sofferto di iperemesi gravidica (una rara sindrome che colpisce meno del 2% delle donne incinta) passavo quasi tutte le mie giornate vomitando.
Ma essendo nella savana e vivendo in una capanna fatta di fango e sterco di mucca potevo vomitare pressoché ovunque senza preoccuparmi troppo di centrare il gabinetto o arrivare in tempo in bagno.
Si, lo so lo so. Vi state immaginando la scena.
Vomito a parte, vivere nella savana una gravidanza che pur essendo fisiologica mi ha dato non poche gatte da pelare non e’ stato sempre avventuroso e divertente.
Il cibo, sempre lo stesso quasi tutti i giorni, arrivava a nausearmi cosi tanto da non riuscire a mangiare a sufficienza.
Utilizzare la latrina con il pancione era tutto tranne che comodo.
Lavarmi nelle bacinelle, piegata in due senza potermi piegare in due era un’impresa ginnica.
Le strade sterrate limitavano se non addirittura impedivano pressoché ogni mio spostamento, costringendomi a vivere una vita sedentaria a cui non ero per niente abituata.
Ma in Kenya non c’e da scherzare.
I pericoli sono insidiosi e basta poco per oltrepassare quel confine sicuro che hai tracciato.
“Non sei più solo tu”, era la frase che più sentivo dirmi in quei mesi e che alla fine divenne un po il mio mantra.
Non sei più solo tu.
Lo pensai davvero alla prima ecografia in cui la vedemmo girarsi e rigirarsi dentro di me.
Ricordo di aver cercato gli occhi di Ntoyiai, senza trovarli. Era troppo impegnato a guardare lo schermo.
Ricordo la prima volta che sentimmo battere il suo cuore.
Forte.
Presente.
Vita.
Che cresce come un’acacia sotto il sole che tramonta.
Ogni giorno mi scattavo delle fotografie. Non avendo specchi volevo vedere quanto cresceva la pancia.
Ancora le conservo, gelosamente.
Ricordo le sere, dopo lunghe giornate, ritrovarci a letto guardandola scalciare.
E Ntoyiai che poggia le sue mani su di lei, pregando per noi.
Ricordo ogni singola alba e ogni tenero tramonto su quell’amaca che ho portato dall’Italia, ad ascoltare musica e dipingere la vita che sara’.
Ricordo quando mi feci visitare, un po per scherzo un po per curiosità, da mia suocera e se ci penso ora mi vengono ancora i brividi per ciò che era riuscita a predire.
Ma lo sapete meglio di me che non esiste sole senza nuvole. Non avremmo arcobaleni senza piogge.
Nessuno sa quale sia stata la causa scatenante; forse l’iperemesi gravidica, forse cibo contaminato, forse un fisico non troppo forte. Iniziai a stare male. Un’infezione dopo l’altra che mi costringevano a lunghe visite in ospedale con flebo e iniezioni varie.
Ero sola.
Mi sentivo sola.
Il corpo sembrava non rispondermi più e io iniziavo ad avere paura.
Perché mi sbagliavo. Io non ero sola.
Non sei più solo tu.
Sapevo che il mio corpo stava iniziando a cedere, lentamente ma ancora era troppo presto.
Ma non c’era più tempo.
Era un mercoledì pomeriggio quando, durante un’ecografia di controllo ci dissero che la bambina era andata in grave sofferenza fetale.
“Devi andare a Nairobi al più tardi domani mattina, devi fare altri controlli e qui non abbiamo i macchinari”.
Ricordo il silenzio.
Mio.
Nostro.
Ricordo la notte a preparare quei pochi vestiti che avevo dietro. Sporchi.
Ricordo la sua mano, nella mia. Non l’ha lasciata un secondo, per tutto il viaggio.
Ricordo il Kilimanjaro che piano piano si allontanava. La città grigia che sempre più velocemente ci inglobava.
Le strade affollate e sterrate.
Il caos dentro. Il silenzio fuori.
Ricordo i medici che mi sorridevano e ci rassicuravano.
Ricordo Ntoyiai che fissava lo schermo, questa volta cercando disperatamente i miei occhi.
“Dobbiamo portarti in sala parto, non c’e più tempo”.
Volevo urlare.
Ok, ma la bambina? Stara bene? Sono solo di 34 settimane.
“La bambina se la caverà. E’ forte. È una guerriera”.
Ricordo le lacrime. Silenziose. In quel grosso ospedale sconosciuto. In quella bianca e vuota sala d’attesa. Seduti fianco a fianco senza sfiorarci, eppure cosi vicini.
L’ultimo messaggio che mandai fu a mia mamma.
“Sto per entrare in sala parto”.
“Ok, bambina mia. Sto arrivando”.
La mia mamma stava per imbarcarsi su un volo last minute per Nairobi.
Ricordo il camice. Le facce simpatiche degli infermieri. La ragazza masai, mi chiamavano.
Ricordo l’ultimo bacio con Ntoyiai che con sguardo perso mi guardava essere portata via.
Ciò che non ricordo e’ una mancanza, una carenza, una imperfezione in qualsiasi persona abbia incontrato in quell’ospedale.
Il mio adorato Dottor O. e tutto il suo staff si presero cura di noi come nessun altro ha mai fatto.
E quando finalmente tirarono fuori la mia piccola dolce guerriera pensai, sorridendo, che in fondo avevo fatto la scelta giusta.
Nonostante tutto.
Pensai che la vita e’ davvero qualcosa di meraviglioso, anche dentro un grande e anonimo ospedale di un grande e controverso paese.
E pensai che a quella vita bisogna attaccarcisi con le unghie e con i denti, per esistere davvero.
Per (r)esistere fino alla fine.
Qualche tempo dopo tornammo a casa, nella savana.
Tutto era diverso.
Tutto era mutato.
Tutto era diventato come doveva essere, da sempre.
E non potrò mai dimenticare quando, per la prima volta, abbiamo varcato la soglia di casa in tre.
Acceso il fuoco e preparato il chai.
Guardato il cielo dipingersi di mille colori e sentire in lontananza il belato delle pecore sulla strada di casa.
Non lo dimenticherò e quando sarai grande, bambina mia, ti racconterò che avventura meravigliosa e’ la vita.
Nella sua semplicità.
Nella sua autenticità.
Grazie Gaia, leggerti è sempre un piacere.
Questo racconto mi ha fatto venire i brividi e mi ha presa di pancia e di cuore.
Credo che in diverse latitudini non possiamo approcciarci solo con la mente razionale. L’istinto di Gaia è stato fortissimo e lei, loro, bravi a seguire con fiducia il proprio sentire. Grazie.